Prearcadia settentrionale

Nell’Italia settentrionale non vi era un centro di cultura naturalmente antibarocca come quello cosí preciso di Firenze, la cui priorità nel rinnovamento arcadico fu riconosciuta ad esempio dal Muratori, grande lodatore del Maggi e degli antibarocchi settentrionali. Ma già nell’epistolario del Redi (e poi nel Ditirambo[1]) compaiono assai presto i nomi del «savio» Maggi e del De Lemene come di uomini ormai fuori dell’inganno barocco e del secolo «depravato»[2] e degni quindi dell’attenzione e della stima e dello scambio epistolare dei letterati fiorentini. Il caposcuola toscano riconosceva l’esistenza fuori di Toscana di letterati illuminati da una nuova esigenza di chiarezza e serietà, di «saggezza» umana e letteraria, legata a condizioni di rinnovamento culturale e morale anche se non cosí precise e propizie come quelle della cultura toscana[3].

Nel caso del Maggi[4] (e in parte del De Lemene) il legame fra cultura e letteratura è soprattutto rappresentato dal suo forte interesse classistico e dal suo atteggiamento religioso-morale che si incontra con un’ondata di moralismo contro la «lascivia» marinistica percepibile anche in ambiente di ultimo barocco settentrionale[5]. E del resto anche nei toscani abbiamo notato l’esigenza di una nuova serietà morale confinante (nel Filicaia) con atteggiamenti di un forte bigottismo ufficiale degli ultimi Medici e con una diffusa azione dei gesuiti e delle loro scuole[6], piú sensibile nell’Italia settentrionale. Ma nel Maggi lo stesso moralismo religioso, che lo distolse dai «suggetti pericolosi» e lo portò a reagire con violenza alla poetica marinistica, ha poi un fondamento particolare nel suo concreto buon senso che si traduce in maniera piacevole ed efficace (con un lontano sapore pariniano o portiano e in una tradizione che nel Settecento continua con i Tanzi e i Balestrieri) nel teatro e nella poesia in meneghino, in cui l’animo chiaro e pensoso dell’illustre signore si esprime con piú abbandono, nei festosi colloqui col nipotino, nelle descrizioni della sua villa e del suo dolce far niente nelle vacanze:

Sont a Lesma sol solett

par fà i cunt cont i massé,

bella vista, e loeugh quiett

da descorr cont i pensé.

La mattina sto giò tard

fin che ’l sò me ven adoss,

fin che ’l coeugh moeuv i leccard,

e son stracch de stà in reposs.

A faà i cunt con i ficciaever

no me casc parché g’ho pairo,

e sto in legg cuntand i traever,

e fagand castij in l’airo.[7]

Fondo di bonarietà e di intimità, di amore per la vita, di saggezza tranquilla, ma non priva di fervore morale che vive anche nell’espressione in lingua letteraria di «cose vere e appropriate»[8] a cui il Maggi dové la sua fama e la sua efficacia nel «rinnovamento del buon gusto».

Questo fervore morale (che il Muratori vedeva derivato anche da una particolare educazione di filosofia morale[9]), legato anche ad una nuova vitalità in una Milano che si va facendo diversa da quella del primo Seicento, si incontra con una capacità istintiva di espressione decisa e inequivoca e rivela la sua efficacia non solo nelle forme popolari e scherzose (piú aperte tradizionalmente a un senso di sincerità e di realismo), ma proprio in quelle rime a sfondo morale e religioso o amorose spirituali, in cui il programma di nuova poesia si appoggia ad un’attenzione particolare alla realtà dell’animo, ad un vivo senso della vita spirituale. Sicché, in una cura stilistica molto piú approssimativa (donde la polemica Muratori-Maffei di cui parlerò piú avanti) di quella di un Menzini o di un Filicaia, lo scatto dell’espressione maggiana, a volte quasi rude e disadorna, ma sicura e decisa, è ben coerente ad un’interna sicurezza che i contemporanei dovevano insieme sentire come presenza di un nuovo contenuto spirituale piú serio e come modo espressivo nuovo e per loro davvero rivoluzionario.

Si pensi alla maniera dominante marinistica e si legga un sonetto come il seguente (Il vero saggio qual sia), con le sue forme scarne e brevi, con la sua chiarezza poco adorna, con la sua sobria discorsività e il suo fervore contenuto ed immesso nel passo risoluto di versi poco armonici, ma soprattutto poco lambiccati e lontani da ogni lusso di immagini e di suoni:

Delle umane dottrine il miglior nervo

è il conoscer che l’uom nell’ombra siede.

Finché l’ingegno al suo fattor non riede,

sempre da sue culture ha ’l frutto acerbo.

L’occhio di sua virtú fa piú riserbo,

se abbassando le ciglia, al lampo cede.

Chi mira in alto piú, quegli men vede:

la piú cieca ignoranza è del superbo.

Dio, gran padre de’ lumi, anco al piú colto

spirto, nel tenebroso uman viaggio

mostra ’l tergo talor, ma non il volto.

Chi sue tenebre vede, ha ’l piú bel raggio.

Chi crede saper piú, quegli è piú stolto.

Chi sa di non saper, quegli è piú saggio.

Manca qui la fusione e l’articolazione del componimento cui la poetica arcadica tende e di cui erano esemplari i sonetti del Redi o del Menzini, ma in questo procedere a gruppi di due o tre versi al massimo (e addirittura il finale si compone di tre versi simmetrici, ma staccati), in questa espressione poco armonica c’è pure l’essenziale presenza di una ripresa di discorso poetico fuori della maniera secentistica, di un nuovo accordo di parole e realtà sentimentali in cui l’esperienza petrarchesca e petrarchista conferma l’omogeneità di questa esperienza con quelle che altrove si avvalgono appunto dell’utilizzazione di moduli petrarcheschi come sicuro mezzo di nuova forma poetica.

E se nelle Rime del Maggi si ha sempre l’impressione di una espressione non perfettamente riuscita, di un tentativo che lascia qualcosa di incompiuto (e pure con un certo suo fascino di novità acerba e personale), non si deve negare a questo scrittore un suo accento e un suo nucleo ispirativo che dà valore e forza alla stessa importanza della sua posizione di rottura del gusto barocco, di iniziatore della nuova letteratura nell’Italia settentrionale. Accento piú preciso in alcuni sonetti come quello già letto o come quest’altro, Gode in pensare alla mutazione di se stesso, che raggiunge una maggiore complessità e azzarda con successo un ricorso alla immagine piú esplicita nel finale:

Dove sono i sospir, che al giovinetto

mio cor porger solean vano alimento,

al superbo mio cor, ch’ebbe a dispetto

di moderata speme andar contento?

Le dorate catene, onde fui stretto,

or d’amore, or di gloria, io piú non sento.

Chè ’l desio giovenil, che m’arse il petto,

venne qual fuoco e poi passò qual vento.

Cosí disposto al fine a cangiar metro,

alle antiche follie chiudo l’orecchio

e con saggio dolor mi guardo indietro.

Riconosco ognor piú, quanto piú ’vecchio,

che le speranze mie furon di vetro,

e di quel vetro all’avvenir fo specchio.

Nelle poesie amorose spirituali per Eurilla (Teresa Serra Visconti) questa forma di chiarezza decisa e scabra, fondamentale nell’esercizio poetico del Maggi, si addolcisce in una blanda musicalità, in un certo piacere di cadenze morbide che fanno pensare al De Lemene, ma che vengono scosse dai movimenti piú intimi di ispirazione etico-religiosa mai assenti nella produzione del Maggi.

E un tentativo piú interessante (anche se meno riuscito rispetto ad alcuni sonetti piú compatti ed intensi) di accordare la nuova tematica, la nuova materia sentimentale e spirituale con la melodia di eredità barocca si può vedere nelle poesie etico-religiose «per musica» come Desiderio di sapere se i peccati sian perdonati, in desolazione di spirito, che desidero qui riportare come esempio notevole di una sensibilità morale e religiosa tutt’altro che superficiale ed imposta dall’esterno:

Dite, dov’è il mio Dio?

egli era nel cuor mio,

ma non v’è piú.

Ahi, sdegnerà tornar,

che nol seppi guardar

quando vi fu.

Sconsigliato non sol, ma ingrato fui.

Non state a lusingarmi,

non vo’ per consolarmi

altri che lui

gridate, che ho torto,

che il torto mi viene,

non voglio conforto,

ma voglio il mio bene.

Ma come? oimè: dir voglio?

questa che par fidanza, è forse orgoglio.

D’invitarlo ardir non ho,

che l’offesi col rifiuto.

Mal richiede un ben perduto,

chi l’aveva, e nol curò.

Ed oh che bene immenso!

Tal gioia ne dà,

che ogn’altra è mendace.

Ei porta una pace

che il mondo non l’ha.

Dolce tempo che ’l godei!,

sospirando al cuor ne parlo.

Deh potessi rimembrarlo,

senza il duol ch’io lo perdei!

Pruovo omai di quali angosce

sia cagion lo starne senza.

È un’amara conoscenza

di chi perde, e poi conosce.

Ma chi mel tolse, oimè?

Lampo d’onor bugiardo,

un vento d’ira, un guardo,

un ben, che sembra bene, e poi non è.

Ah chi mel tolse, oimè?

Fu sí lieve la mercede,

per cui ruppi a lui la fede,

che perverso io sto per dire,

che ho tradito per tradire.

Dunque diffiderò?

È pur dolce il mio Dio: Grida, che no.

So che torto gli fa,

piú che ’l tradirlo, il disperar pietà.

Sú cuore, or va:

chiedi perdono.

Egli è sí buono

che tornerà.

L’ire sue sí lievi sono,

che un sospir le smorzerà.

Egli è sí buono

che tornerà.

Ma perché ’l cerco fuore,

se forse è già nel cuore?

Io quasi il giurerei.

Questi pensieri stessi ah non son miei.

Egli li detta, io lo scrittor ne fui:

e se vi sembran pie

queste lagrime mie, vengon da lui.

A voi sembra ch’io pianga, e mi consolo:

che son pieni d’amor gli sdegni suoi.

Sí dolce è la pietà, ch’egli ha di noi,

ch’è gioia immensa immaginarla solo.

A voi sembra ch’io pianga, e mi consolo.

Mentre un piú esplicito abbandono, con forti residui barocchi, al piacere della musica e del pittoresco è presente nella lunga e discontinua Giornata di isola. Il tentativo è interessante perché la sincerità del sentimento religioso e morale (ben in accordo con la fervida chiarezza dello spirito del Maggi, con il suo attivo senso della vita morale e degli affetti) rifiuta soluzioni troppo facili e scorrevoli, e proprio perciò (piú che per un’originaria incapacità melodica) è ben lontano dalle forme dolciastre e concluse del De Lemene, ha come delle dissonanze e sfasature, quasi un certo claudicare del ritmo che solo a tratti raggiunge felici movimenti di ispirata e limpida tensione, battute di decisione coerenti all’intimo scatto dell’animo del Maggi. E il linguaggio è pure, nella sua chiarezza e spregiudicatezza, incerto tra forme letterarie e parlate (e a volte quasi popolari e addirittura rozze), come la stessa spiritualità maggiana non evita nella sua decisa semplicità qualche aspetto di rozzezza e di goffaggine.

Tuttavia la mèta del Maggi era tutt’altro che volgare anche in questo caso (dare al nuovo contenuto un’espressione melodica ma essa stessa rinnovata da questa sua nuova funzione «antilasciva») e si può capire come nel rinnovamento antibarocco dell’Italia settentrionale questi tentativi interessanti per il loro stesso coraggio e la loro sincerità, questo tipo di esperienza etica e poetica cosí individuata e cosí animata, pur nel suo fondo sentenzioso e discorsivo, da una vita sentimentale genuina, dovessero colpire i contemporanei e operare «conversioni» decisive dal gusto secentistico al desiderio e ai tentativi di una nuova letteratura.

Né in questa prima fase di reazione al barocco nel nord Italia (meno preparata ed armonica di quella toscana) si dette eccessiva importanza alla sciatteria di quello stile (in parte però giustificabile diversamente nella speciale posizione del Maggi alla ricerca di forme semplici e decise), di cui si ammirò la chiarezza, l’intima sostanziosità, la presenza di motivi spirituali e di una analisi dell’anima attenta e fervida che appariva nuova e promettente per un’epoca che andava cercando, nei suoi spiriti migliori, una migliore conoscenza ed espressione della realtà esterna ed interna e la ricostruzione dei mezzi espressivi su basi di «natura e ragione» contro la cosí detta «barbarie di artifizio» dei barocchi.

Ecco infatti l’elogio del Muratori che dopo aver accennato a una prima attività del Maggi come poeta «lascivo» (nel senso complesso della parola, morale ed estetico) cosí continua: «Poscia nelle rime serie tanto amorose come spirituali, usò un suo particolare stile, che non è già spesse volte vivace per immagini di fantasia, né strepitoso per grandi parole o metafore o iperboli ardite, ma è ben sempre grave per la maestà de’ sensi, pieno di spirito per l’ingegno de’ concetti, non troppo sottili e metafisici, ma naturali e veri e ameni per la leggiadria delle frasi. Insomma è quel suo stile ripieno di un sugo meraviglioso di filosofia, e di una nobil notomia degli affetti umani, con cui si porge un pascolo dilettevole insieme e sodo al palato di chi ama piú i frutti che le fronde, e di chi sa gustare il buono de’ differenti stili, senza consumare tutta la sua stima dietro ad un solo e massimamente dietro a quello che diletta solamente gli orecchi e al piú ancora l’immaginativa, senza pascere parimente l’intelletto».

All’elogio del Muratori, tutto ispirato dalla impressione piú viva dell’azione esercitata dal Maggi fra il 1670 e il 1690 in alta Italia, prima della diffusione delle poesie del Menzini e del Filicaia, rispose piú tardi Scipione Maffei (il grande erudito veronese e padre d’Arcadia nel Veneto), aprendo una polemica continuata dal Muratori e dal Martello e molto interessante per la storia del gusto arcadico sempre piú esigente – dopo una prima fase di reazione al barocco in cui ogni soccorso era considerato buono – quanto alle qualità stilistiche, alla compiutezza e politezza formale che diventava addirittura valore non puramente letterario ma di finezza ed altezza spirituale. Il Maffei nel suo discorso Nella prima radunanza della colonia arcadica di Verona (aperta nel 1705)[10], destinato a mostrare «quasi in iscorcio, quali sieno gli stili che l’Arcadia segue ed approva», dopo aver distinto come il Crescimbeni la letteratura italiana da quella greco-latina e indicato nel Petrarca «il duce cui prima d’ogni altro l’Arcadia seguir si pregia e seguendo il quale traviar non si può già mai»[11] e nel Chiabrera un innovatore, ma limitato, e dopo la condanna del marinismo (con riserve per gli idilli boscherecci e marittimi del Marino), indica nel Maggi un poeta che si ribella al secentismo e a cui riconosce «bellissimi sonetti», ma che non è da imitarsi «perché s’ingannò in alcuni punti essenziali della poesia, come egli stesso non molti mesi prima della sua morte mi confessò».

Poi il Muratori nella Perfetta poesia italiana (1706) aveva di nuovo elogiato il Maggi pur con qualche nuova limitazione: «In Lombardia siami lecito il dire che la gloria di avere sconfitto il pessimo gusto è dovuta a C.M. Maggi e a F. De Lemene. Il Maggi specialmente verso il 1670, cominciò a ravvedersi dal suo e dall’altrui traviare, e a riconoscere che i concetti da lui amati, gli equivoci, le argutezze sono fioretti che scossi cadono a terra, né possono sperar durata. Si fece dunque egli a coltivar lo stile del Petrarca e tanto adoperò in questa impresa che solo il suo esempio bastò a disingannare molte città non solamente di Lombardia ma d’Italia ancora. E ben fu facile ad un filosofo par suo, poetando, di piacere ai saggi e al volgo stesso, piú che non piacque per l’addietro lo stil marinesco. Imperocché laddove lo stile di alcuni petrarchisti, anche rinnovati, sembra (ed è in effetto ancor tale alle volte) secco, smunto e privo di forza, il Maggi riempí ed impinguò il suo di sugo e di vigore. E piú ancora sarebbe piaciuta la sua scuola, s’egli alla forza de’ suoi versi avesse talora piú congiunto il dir sollevato e i colori poetici, e si fosse maggiormente della sua fantasia voluto valere. A memoria mia le rime di questo poeta, capitate a Modena e a Bologna, fecero, per cosí dire, il medesimo effetto che lo scudo luminoso sfoderato in faccia all’effemminato Rinaldo nei giardini di Armida»[12].

Ma intanto il Maffei aveva reso esplicito il dissenso che c’era fra la sua posizione di forte limitazione e quella del Muratori che pure accennava ad una certa deficienza, piuttosto volontaria, dello stile maggiano. Nella lettera al Garzadoro (esempio caratteristico di minuta discussione arcadica sulla poesia in genere e sulle caratteristiche stilistiche di un determinato testo poetico[13]) il Maffei con molto acume distingue l’importanza di rinnovamento del Maggi dalla sua insufficienza artistica, indicando come alla giusta tendenza del Maggi a «rappresentare gli interni movimenti delle umane affezioni, in che ottimamente avvisossi, essendo questo uno de’ poli della poesia» non corrispondesse la capacità di esprimersi in «stile poetico»: «La prima opposizione che può farsi al Maggi è che il suo stile non è poetico. Voi vedete che la saetta va a ferire al cuore, e per certo poche altre opposizioni piú gravi potrebbero farsi a chi scrive in versi. Vero è che molti odonsi tutto giorno per celebrare un poeta replicar encomi ai suoi sentimenti, e si credono aver detto tutto, ma s’ingannano di molto, perché i sentimenti non sono quelli che caratterizzano il poeta, essendo essi ugualmente comuni ai prosatori; quello che fa principalmente il poeta è lo stile e tanto piú nelle cose liriche». Il Maggi vien definito «prosaico ed invenusto», accusato di sentenziosità e di pesantezza ragionativa.

Discussione a cui, se non daremo un preciso valore di urto fra «contenutisti» e «formalisti» in senso moderno, non manca certo l’interesse di una precisazione notevole del gusto arcadico nelle sue oscillazioni fra esigenze di nuovo contenuto e cura di linguaggio poetico e di perfezione stilistica[14] e di una sistemazione dell’importanza del Maggi che indica bene due momenti nella storia dell’Arcadia: quella della reazione antibarocca in cui il Maggi ebbe grande parte, specie nella cultura letteraria settentrionale, e quella dell’Arcadia trionfante e matura in cui l’esempio del Maggi appare arcaico e superato, mancando di quelle qualità stilistiche a cui l’Arcadia veniva dando un valore sempre piú preciso.

E la stessa difesa piú tarda che il Martello fece del Maggi contro il Maffei nel Femia sentenziato e nella Ritirata del Femia e nell’introduzione al Teatro italiano, se non si può ridurre ad una semplice difesa per partito preso (per lumeggiare le cattive qualità del Maffei e la sua ingratitudine verso il Maestro[15]), implica certo la costatazione dello scadimento della fortuna del Maggi e della sua influenza ridottissima o nulla nell’Arcadia settecentesca a cui quel ritmo scabro, deciso, ma poco armonico ed elegante dové parere efficace contro il barocco, ma non certo esemplare per l’educazione del buon gusto[16]. Limitata cosí l’azione del Maggi in un’epoca precedente la diffusione delle poesie del Menzini e del Filicaia e in una precisa zona, indicato il carattere del suo rinnovamento e l’accento della sua personalità, si può ora accennare alla posizione rappresentata alle origini dell’Arcadia dall’altro scrittore lombardo che i contemporanei avvicinarono sempre al Maggi in un’ideale coppia di ribelli al malgusto secentistico.

In realtà la vicinanza fra Maggi e De Lemene è assai limitata e manca senz’altro nel De Lemene quella precisa concretezza umana e morale che è tipica del Maggi, cosí come la coscienza del distacco dal barocco è nel De Lemene molto piú dubbia e complicata da effettivi residui barocchi nel suo spirito e nella sua poesia. La base comune è rappresentata dalla coincidenza della conversione letteraria con un approfondimento (diversamente intimo) di posizioni religiose e morali, ma nel De Lemene il passaggio dalla tematica erotica barocca a quella religiosa teologica si risolve, quanto a motivi di vera intimità, in una pura questione di contenuto astratto, a cui si aggiunge, sulla linea della melodia (l’elemento piú vivo nel De Lemene), una variazione di dolcezza da schietta sensualità a morbido, tepido vagheggiamento di riti e momenti meno intensi e tragici o comunque resi blandi e femminei, raddolciti e ridotti in proporzioni minuscole ed amabili.

Sicché la fortuna del De Lemene in Arcadia (maggiore di quella del Maggi) si basa su due motivi: su di una ragione di bruto contenuto e di omaggio convenzionale alla superiorità della poesia religiosa e addirittura della esposizione in versi di proposizioni teologiche (quale è il fastidiosissimo libro, intitolato Dio, che espone in sonetti ed inni la filosofia tomistica), e sulla simpatia arcadica per le forme melodiche che d’altra parte nel De Lemene apparivano scompagnate dai temi «lascivi» e rinforzate (ma quanto esteriormente e falsamente!) dall’applicazione fattane a temi religiosi. Fu da prima proprio la solita conversione, resa piú clamorosa dal volumetto Dio[17], a precisare l’attenzione dei contemporanei su Francesco De Lemene[18] e sulla sua attività letteraria presto associata idealmente a quella del Maggi e presentata poi come esemplare dallo stesso biografo e critico Muratori[19].

Come si vede dalle frasi della Vita del Muratori e dei «Delegati» riportate in nota, il corso dell’esperienza lemeniana è tutto legato ad un essenziale problema di accordo fra la sua vocazione di canto e l’elemento religioso adoperato prima a dar serietà alla sua poesia in forme piú regolari, solenni (sonetti ed inni), in esercizio retorico di esposizioni di misteri e dogmi avvivati da un armamentario di trovate e immagini di origine secentista anche se piú misurate e regolarizzate, poi piú originalmente adattato in una direzione meno solenne alle stesse forme melodiche del madrigale e della canzonetta in cui egli aveva fatto le prove piú felici della sua gioventú dopo le prime esperienze piú marinistiche.

In questo senso l’opera del De Lemene, che è certo fra quelle degli iniziatori del gusto arcadico la piú legata a forme e spiriti secenteschi, ha viceversa una sua notevole importanza e per l’influenza che poté avere su alcuni scrittori dell’Arcadia matura (in particolare il Rolli, che utilizzò con ben altri risultati e con altra poetica schemi di cantate lemeniane[20]) e, piú ancora, come segno di uno dei punti piú delicati del passaggio da barocco ad Arcadia: il canto, la melodia, rifiutati come semplice «piacere degli orecchi» e come espressione di sensualità, ma ricevuti o in accordo con nuovi temi che parvero taumaturgicamente capaci di depurare e autorizzare nuovamente il canto o, piú genuinamente, in una nuova giustificazione intima di sensibilità diversamente da quella barocca, animata, vivace e libera, lietamente ma non pesantemente edonistica, che trionferà nell’Arcadia piú matura sulla via già in qualche modo indicata da certe opere del Redi, del Menzini, e proseguita dallo Zappi, dal Metastasio e dal Rolli.

Il problema del canto preoccupò i letterati dell’ultimo Seicento e a forme di rifiuto, sostanziali nel nuovo bisogno di un discorso poetico non riducibile a puri valori fonici, si associano tentativi di salvataggio persino di forme melodiche piú tipiche, come avviene nel De Lemene, attraverso la loro applicazione a «temi seri» e creduti capaci di giustificare in maniera nuova l’amata melodia madrigalesca e canzonettistica. In tal senso l’amore dei contemporanei per il De Lemene sotto il manto della serietà religiosa, del nuovo Parnaso cristiano, era concessione ad una inclinazione retorica di grandiosità civile o religiosa non assente fra le tendenze di quegli anni (e qui la soddisfazione era piena nei confronti del Dio) e piú ancora risposta ad una interna vocazione di canto che non aveva ancora trovato in tutti la sua vera soluzione[21] coerente al piú intimo spirito arcadico e veniva soddisfatta dall’equivoca, morbida musicalità del Rosario di Maria Vergine.

In questo singolare prodotto di sterile raffinatezza e di virtuosismo su di una materia sentimentale piú svenevole che veramente delicata, il De Lemene portava il gusto di miniatura che viene prevalendo nell’ultimo Seicento (ma che in lui ha qualcosa di veramente lezioso come di un lavoro di pazienza, di fiorellini artificiali da convento di monache) e riduceva attentamente le forme madrigalesche e canzonettistiche in quadretti, in scenette preziose in cui il gusto stesso di variazione e di trovate dei barocchi ha però, nella stessa continuità e nelle dimensioni miniaturistiche, una singolare unità e misura tecnicamente interessanti in questo barocchetto morbidamente pio e leggermente sensuale.

Non occorrerà rilevare la sostanziale ambiguità di questa poesia religiosa come pretesto a un esercizio di abilità (abilità anche nel continuare per tante pagine a sostenere con variazioni spesso davvero lambiccate ed esteriori uno stesso motivo poco approfondito intimamente e svolto descrittivamente in superficie), il fastidio di questa tepida, rugiadosa religiosità senza vigore, incline a soluzioni di sensibilità molle e poco pura, in cui il vibrare della melodia e il gesto delle figurine si associano in atteggiamenti languidi e senza alcun impeto religioso. Come in questa Rosa senza spine:

Fermati, non toccar. Gesú dicea

di Maddalo a la bella,

che i sacri piè volea baciargli, ed ella

a Gesú rispondea:

fermati, non toccar? Perché, mio Dio,

togli il baciare a l’umil labbro mio

coteste del tuo piè rose divine?

Fermati, non toccar? Non han già spine?

Eppure è proprio in queste «rose» senza freschezza che si può verificare la tendenza piú interessante di questo letterato nel passaggio al gusto arcadico-rococò attraverso svolgimenti e riduzioni di motivi barocchi (ben diversamente di quanto avviene nei piú limpidi e «rinnovati» toscani), nella linea della sensibilità melodica già certamente modificata (se non altro nell’accordo piú attento con figure e movimenti di figure) in questo prodotto «barocchetto». Ed in tal senso di interesse di gusto e di tecnica si può anche comprendere come su questi testi (in cui sensibilità tutt’altro che volgare e raffinatezza stilistica sono qualità senza vero centro e nucleo poetico) si poteva discutere a lungo elogiativamente, traendone spunto per osservazioni assai fini sulla poesia e sulla esecuzione stilistica. Come fece il Ceva nelle sue Memorie d’alcune virtú del signor Conte De Lemene e di alcune riflessioni sulle sue poesie, Milano, 1706, che, secondo il Croce[22] hanno «l’andamento di un saggio critico moderno» e sono tutte vibranti dei concetti del «buon gusto» e del «buon giudizio», della «natura guida e maestra», della poesia che insensibilmente «incatena ed incanta» e lascia una dolcezza nell’animo «a guisa di un liuto armonioso che segue per lungo tempo a risonare da sé medesimo senz’essere tocco, rifacendo sotto voce l’aria e le canzoni già fatte...»[23].

E se il critico aggiunse, con la sua simpatia eccessiva, anche ciò che nel testo non c’era o era appena accennato (e la simpatia corrispondeva a un’aspirazione del gusto del critico valida anch’essa nella poetica arcadica come amore della grazia, della intima dolcezza, delle segrete possibilità della parola poetica, dell’incanto di particolari stilistici assaporati con nuova intensità), non v’è dubbio che le qualità dell’attenzione espressiva, dell’accurato accordo nella parola di suono e immagine esistono, sia pure in maniera esteriore e senza rispondenza sentimentale, nei madrigali e canzonette del Rosario (e per un effetto di gruppo di madrigali, si vedano quelli che vanno da Stagione delle rose a Rose fiorite ed aperte). Agli arcadi, assai generosi verso ciò che secondava il loro gusto e serviva al «rinnovamento», piacque il Dio per la sua funzione di riempire un genere di poesia «alta» (la poesia religiosa e teologica); piacque piú sinceramente il Rosario con il suo accordo di miniaturismo figurativo e melodico e di religiosità morbida e piacevole, ma piacquero anche, e piú, quelle poesie piú giovanili (sonetti madrigalistici e cantate) in cui la melodia sgorgava piú abbondante e colorita[24]. C’era in queste poesie ancor tanto di secentesco e come lessico e come trama canora poco salda e poco accordata con la linea di chiarezza e di evidenza che l’Arcadia amava, ma c’era anche l’esempio di un canto ormai autorizzato à rebours in quell’autore dalle sue esperienze successive, e comunque non privo di una generale misura che lo distacca dall’immagine piú convenzionale del barocco-turgido (come lo sentivano gli arcadi[25]) e dalla melica barocca come puro «piacere degli orecchi» legato a trame di parole svagate e senza preciso, organico significato.

Ecco cosí i sonetti come La violetta, Piacere di solitudine, le cantate «a voce sola» come La bella cantatrice o La lontananza. Nel primo sonetto i chiari residui barocchi di linguaggio e di sfumature canore[26] («pompa gentile», «pompa d’amor», «con linguaggio di odor» ecc.) nel gioco madrigalesco della parola «pallore» (e pallida, pallidetta) sono ridotti in un disegno piú nitido e in un effetto piú modesto e smorzato.

Messaggera dei fior, nunzia d’Aprile,

de’ bei giorni d’amor pallida aurora,

prima figlia di Zeffiro e di Flora,

prima del praticel pompa gentile:

s’hai ne le foglie il bel pallor simile

al pallor di colei che m’innamora,

se per imago sua ciascun t’adora,

vanne superba, o violetta umile.

Vattene a Lidia, e dille in tua favella,

che piú stimi degli ostri i pallor tuoi,

sol perché Lidia è pallidetta anch’ella.

Con linguaggio d’odor dirle tu puoi:

se voi, pompa d’amor, siete sí bella,

son bella anch’io perché somiglio a voi.

E nel secondo, che poté suggerire qualche spunto al Solitario bosco ombroso del Rolli, torna una sensibilità madrigalesca e una delicata voce di canto in un quadretto anche sentimentalmente vicino alla tematica arcadica e preziosamente chiuso da quel ritorno di canto su di una pausa e una esitazione melodrammatica:

Questo bosco romito, ove s’asconde,

fuggita dai tumulti amabil pace:

questo placido rio, che fra le sponde

non s’ode mormorar, ma passa e tace:

questo dal sibilar d’aure o di fronde,

dal garrire importun d’augel loquace

or non rotto silenzio, o qual m’infonde

dilettevol ribrezzo, orror che piace!

Fra quest’ombre solingo e l’aer fosco,

una pena c’ho in sen voglio far chiara,

che fedel segretario io lo conosco:

ma no; sia muta la mia pena amara,

e non senta il silenzio, il rio, né ’l bosco

turbarsi dal mio duol pace sí cara.

In questi due sonetti si può cosí ben capire come pur nella loro base barocca (cosí preziosamente alleggerita) gli arcadi potessero apprezzare la tenerezza melodica e l’accurata espressione di una sensibilità attenta e pacata. Cosí nelle cantate a voce sola, ancora piú chiaramente legate a una melica secentesca assai diffusa, la linea del canto (piú rapido e brillante nella Bella cantatrice, piú indugiante e pensoso nella Lontananza) – a parte gli svolazzi piú tipicamente secenteschi e certe immagini piú barocche, ma alleggerite nel tono di scherzo – si offriva sicura e suggestiva ai lettori arcadici che nel De Lemene trovavano, anche nella sua produzione meno «rinnovata», un esempio di costruzione melodica da recuperare nelle loro poesie entro un accordo piú intimo tra valore melodico, figurativo e sentimentale, fra tenerezza canora e chiarezza di linguaggio.

Se l’esperienza del Maggi vale soprattutto come decisa prova di distacco dal barocco e quella del De Lemene come prova della tendenza melica implicita nella costituzione d’Arcadia, e tutte e due testimoniano dei limiti e caratteri del movimento prearcadico nell’Italia settentrionale, l’opera del Guidi presenta non solo l’interesse di una personalità piú risentita e non priva di fermenti poetici, ma l’interesse di una posizione piú di impeto e di ricorso all’immagine che i contemporanei sentirono, in quell’epoca di velleità piú che di realizzazioni, come riprova della libertà dell’ingegno poetico, della preminenza del genio nel rapporto arcadico fra genio ed educazione, ispirazione e disciplina.

Cosí nel discorso citato per l’apertura della colonia veronese, il Maffei poneva a chiusura del suo quadro la poesia del Guidi come esempio di novità e di audacia poetica[27] e il Gravina, per il quale il Guidi è addirittura l’unico vero poeta contemporaneo, dopo aver ricordato nel De disciplina poetarum gli altri innovatori che però «ut novorum insignioribus vitiis ita et praecipuis veterum virtutibus caruerunt», annuncia trionfalmente: «Inventus vero est hoc aevo Alexander Guidus noster amicissimus, qui primus mortalium tollere contra sit oculos ausus, primusque novorum insolentiam, candore atque castitate veteris locutionis, et imitatorum servitutem moderata elatione spiritus, et colorum novitate declinarit»[28].

Ma a parte lo speciale elogio del Gravina che si svolge, sul pretesto del Guidi, verso una complessa posizione estetica e programmatica che rimase isolata di fronte alle posizioni piú facili e fortunate del Crescimbeni, il riconoscimento generale degli Arcadi (dal Maffei al Muratori, dal Martello al Crescimbeni) di una qualità geniale del Guidi e quasi della sua testimonianza concreta a favore della fantasia e del genio poetico, trova in realtà precisi limiti nell’isolamento effettivo in cui la poesia guidiana rimase (anche se qualche eco se ne può trovare nella Massimi o in certi sonettisti di «rovine romane») e nel giudizio di singolarità inimitabile e di eccezione non priva di rischi e difetti potenziali che ne dà il Crescimbeni, esprimendo quella che dové essere l’opinione diffusa dell’ambiente romano in cui Alessandro Guidi operò dal 1685 alla morte. Nel dialogo IX della Bellezza della volgar poesia esalta (come nella Vita del Guidi da lui scritta[29]) l’originalità del Guidi come di un poeta «che non vorrebbe dir parola che non fosse immagine». Ma poi non mancano punte di dubbio elogio quando parla del «degnissimo nostro Erilo» che vuol fare «strasecolare» e di una poesia «che non ammetterebbe una sillaba che facesse il verso men rumoroso d’una bombarda» (frase già adoperata per i secentisti), quando nota il rischio di gareggiare con la Bibbia (che può condurre a «fiaccarsi il collo», «saltabellando continuamente sull’orlo de’ precipizi») e quando infine conclude per una sua eccezionalità incapace di fare scuola, di aprire (secondo il gusto arcadico l’importanza di un poeta è misurabile anche nella sua capacità di aprire una scuola, di costituire esempi) una nuova maniera poetica: «L’eccellenza dell’arte sua e la finezza della armonia, che possiede veramente stupenda, il fanno non condannare universalmente, e per conseguenza non basta in ciò la sua autorità, ma bisogna esser lui, per godere di questo privilegio».

Il giudizio del Crescimbeni precisa bene la posizione del Guidi rispetto al quadro della letteratura arcadica e della sua formazione, in cui contarono assai piú gli esempi dei toscani con la loro chiarezza e continuità di discorso poetico che non quello del Guidi. Verso il quale alla fine non mancava un certo sospetto di fronte a quella che pareva «genialità», «libertà di fantasia», di poesia «tutta d’immagine» che faceva pensare perciò a un velato ritorno di secentismo e comunque ad una pericolosa scuola di audacia poco controllata, ad un’eccessiva concessione alla fantasia nell’equilibrio gelosamente misurato tra fantasia e ragione, tra natura e disciplina, tra ispirazione e calcolo stilistico.

In realtà, come vedremo, i sospetti «arcadici» erano esagerati e la decantata genialità del Guidi si riduceva ad un impeto velleitario e di breve respiro, ma – tenuto conto dell’ingrandimento di valore concesso dagli arcadi ai loro poeti e dell’attenzione da essi prestata alla funzione pedagogica ed esemplare di un autore – si può capire come la poesia guidiana, con le sue mosse assorte ed impetuose, con il suo piglio pindaresco ed eroico e d’altra parte con le sue costruzioni poco regolari (la canzone libera), con il suo linguaggio sempre corrucciato ed enfatico, riuscisse insieme gradita e sconcertante per i cultori del «buon Polibo» e «del leggiadro Euganio», per i fautori di poesia accurata e limpida anche nelle forme della lirica «alta» in cui accettarono l’eloquenza poco rumorosa e poco eccitante del Filicaia. Sicché il Guidi, ammirato e onorato in Arcadia e addirittura celebratore ufficiale di tante cerimonie arcadiche (isolato però nello scambio di epistolari del tempo), rappresentò piuttosto un’esperienza solitaria e un’esigenza presto ridotta nella poetica arcadica di primo Settecento. Ridotta a uno stilizzato senso dell’eroico che torna fino nel Metastasio (lettore del Guidi attraverso l’interpretazione del Gravina) e comunque efficace per certo movimento piú scattante (che non nel Filicaia) usufruito in senso piacevole nella linea agile e briosa delle costruzioni arcadico-rococò.

E vediamo da vicino la carriera poetica del Guidi, la sua opera, il suo significato di velleità grandiosa ma non piú barocca, il suo carattere di suggestione e di impeto piú abbozzato che realizzato e i suoi momenti piú riusciti.

Non è facile ricostruire, come si può invece per altri arcadi, la precisa via di evoluzione del Guidi nell’ambiente parmense dominato dal marinista Semproni, ma si può immaginare che qualche influenza del Maggi (sia pure seguito solo in una generica esigenza «antilasciva») fosse attiva in Parma come in Bologna e Modena intorno al 1670. Comunque le poesie pubblicate nel 1671 a Parma[30] sono ancora fortemente legate all’ambiente barocco (e certe punte polemiche contro la «lascivia» non mancano, come velleità, in ambienti di ultimo barocco settentrionale[31]), come dimostrano chiaramente la dedica e un gruppo di sonetti che, con qualche carattere piú particolare, potrebbero figurare in una raccolta di lirici marinisti, come indicano già i titoli concettisti e ad effetto: Amante con chioma finta bionda incipriata, Capelli arsi da un fulmine mentre erano lavati da bella donna, Per bella donna con orologio al fianco, Bella donna paragonata ad una furia, Donna vecchia con fiori in testa, Amanti che si baciano frapposta una vetriata. E appare molto sospetto e dubbio il dramma immaginato dal Martello nella sua Vita del Guidi, di un Guidi poeta barocco malgré lui tanto che per l’intimo tormento della sua vocazione tradita si sarebbe addirittura ammalato[32]!

Fuori di questo gruppo di sonetti l’intonazione moraleggiante ed eroica ben si distingue dal vero e proprio marinismo in una posizione che sfuma tra i motivi di rinnovamento e certi atteggiamenti di ultimo barocco grave e pensoso. Comunque, entro forme piú barocche e confuse, il giovane Guidi afferma già in queste rime la base tematica e il tono piú tipico della sua poesia.

Sulla base di un rifiuto della lascivia sensuale e della poesia erotica (Per la lascivia delle penne), l’interesse del Guidi va a temi morali ed eroici (Virtú contro Fortuna, Eroismo contro lascivia, Gloria e forza dell’animo[33]), alla esaltazione della poesia come commemoratrice di personaggi illustri, di grandi avvenimenti storici.

È soprattutto questo ultimo tema che spicca nelle Rime di Parma: il legame fra le memorie illustri stimolatrici di nuova gloria (Che le memorie degli uomini grandi sono l’unico fomento a l’azioni generose) e la poesia che tali memorie immortala e salva dalla notte del tempo:

Da le moderne e da l’antiche tombe

polverose reliquie in Pindo chiama.

E de gli eroi a suscitar la fama

di guerrieri concenti arma le trombe...[34]

Da le tombe famose aura vitale

porge invitto fomento a nobil core,

le prisch’orme calcando alto valore,

tronca in calle d’onor messe immortale.[35]

Con uno svolgimento che si fa sempre piú torbido e quasi convulso, spunti impetuosi e densi si staccano nei contesti lunghi e farraginosi (difetto mai vinto davvero dal Guidi) e momenti piú nervosi e personali si individuano piú nettamente quando il tema ambizioso della poesia che esalta eroismo e tombe illustri squilla bellicoso e funereo. O si avverte un movimento piú schietto, anche se presto aggrovigliato e approssimativamente espresso, quando il Guidi tenta la poesia delle rovine grandiose e suggestive:

Moiono i marmi ancor, fredde ruine

copron le porte dell’egizia Tebe,

e van gli aratri de l’ignuda plebe

a tormentar le maestà latine.

Obelischi svenati, arsi Colossi

ne’ liquidi dirupi il Nilo affonda,

e divorando i monumenti l’onda

alla barbara Menfi affoga gli ossi...[36]

Fumano le ruine

d’Ilio combusta e la Dardania gente

porge al volo degli Euri esca di polve.

Incenerisce il crine

a la teucra fortuna il bronzo ardente,

e in flebili sepolcri Asia s’involve.

La vendetta dissolve

a barbarici re pompe superbe

e svenate grandezze occultan l’erbe.[37]

Ciò che piú colpisce in queste poesie, piene di tante rozzezze e di tante cadute goffe, di arditezze senza esito o preziosamente oscure, sono appunto certi inizi tematici piú intensi e piú nuovi, come echi di una zona piú profonda e personale, di una commozione piú sincera, che però presto si esteriorizza e si fa retorica e si intrica in forme espressive sempre piú sforzate e lambiccate come «gli obelischi svenati», i «liquidi dirupi», che riconducono piú chiaramente, per quanto entro una via piuttosto singolare e personale, alla vicinanza del clima barocco e anzi di un barocco pesante e tetro.

In realtà la poesia del Guidi nasceva proprio in questa esigenza di scatto poco giustificato (e spesso addirittura vuoto), in questa tensione irrequieta (piú ansia che presenza di poesia) ad una espressione alta ed eroica che il Guidi sentiva in opposizione alla «lascivia» marinistica (a cui aveva reso pure il suo omaggio) e che nella sua sostanza rispondeva a nuove esigenze di rinnovamento spirituale e poetico confuse con residui e ultimi sviluppi barocchi. Questa poesia costruita tra sentenza ed esempio (e dunque con impostazione di poesia lirica e ammaestrativa secondo la convenzione tradizionale ripresa e ravvivata fin dal Foscolo) nasce in un clima letterario incerto, ma il suo accento piú personale la qualifica a far parte delle nuove esperienze post-barocche tra le quali essa porta un piú deciso gusto dell’immagine grandiosa ed eroica (e addirittura certe sue poesie sembrano nella loro stessa costruzione caotica veri e propri trofei poetici simili ai trofei d’armi scolpite di tardo gusto cinquecentesco o tardobarocco), un piglio fra poetico ed oratorio certo diversamente impetuoso dalla pacata enfasi del Filicaia e sviluppatosi sulla sua base naturale già nel periodo parmense e in un equivoco clima di tardo barocco venato dall’eco di nuovi atteggiamenti letterari. E se in seguito un nuovo contatto con le correnti rinnovatrici porterà il Guidi ad una depurazione della propria poesia dagli elementi barocchi piú presenti nelle poesie di Parma, ad un nuovo bisogno di costruzione e di relativa chiarezza, la radice della poesia guidiana era già precisata nel volumetto del 1671, che in genere gli arcadi furono portati a sottovalutare (o ignorare dopo la sconfessione superba dello stesso autore all’epoca dell’Endimione) per il loro tipico bisogno di distinguere recisamente le opere in «prima» e «dopo» la conversione al buon gusto[38].

È del 1683 (in coincidenza con il primo soggiorno romano che anticipa il trasferimento definitivo a Roma nel 1685) la canzone in morte del barone D’Aste che segna il passaggio del Guidi da un confuso clima di ultimo barocco (con fermenti rinnovatori) alla piú chiara adesione al «buon gusto» prearcadico. L’essenziale motivo della celebrazione degli eroi ritorna qui piú spiegato e limpido, in una costruzione regolare e misurata, rapida e lineare in cui sembrano intervenire quella prudenza e quel gusto di chiarezza desiderati dal Menzini anche in accordo con gli impeti pindarici e l’entusiasmo della lirica alta. E sembra quasi che in questo componimento, che gli arcadi misero all’inizio della vera poesia del Guidi, questi abbia fatto un forte esercizio di dominio delle proprie forze naturalmente dispersive e si sia imposto uno schema quanto mai lineare e poco propizio a larghi indugi di descrizione suggestiva, cosí come avviene anche nella canzone Il Tevere alla Massimi (con qualcosa però di brioso che giustifica meglio il ritmo rapido e saltellante) o nella canzone all’Orsi in cui si duole che non si scriva piú di temi eroici.

Già le Muse

eran use

celebrar forti guerrieri;

ma per l’acque d’Ippocrene

sol sirene

son di canti lusinghieri.

Ma questa tipo di costruzione piú lineare e regolare non sembrò al Guidi che una forma provvisoria, adatta a disciplinare la sua abbondanza espressiva e a liberarlo da quegli svolgimenti piú chiaramente barocchi che abbiamo osservato nelle poesie di Parma. L’impeto della celebrazione degli eroi e il suo amore di gesti larghi e inizialmente complessi non si adattavano alla costruzione esile e rapida che si osservò nelle canzoni del Menzini e presto quell’esercizio di «buon gusto» fu superato nel celebre (e quanto povero e svagato!) Endimione (in cui il Guidi tentò una favola organica[39], un componimento teatrale da cui la sua natura di poeta di impeti e di movimenti che si diluiscono e si intricano nei lunghi svolgimenti lo sconsigliava) e nelle nuove poesie scritte fra il 1685 e il 1700 circa, prima in relazione alla sua funzione di poeta ufficiale della corte di Maria Cristina e poi come celebratore delle cerimonie arcadiche, alle quali infine si aggiunsero le sei Omelie di Nostro Signore Papa Clemente XI (1703-1709), ultima fatica tutta retorica e fiaccamente illustrativa sul testo latino oratorio[40].

Le poesie dell’epoca cristiniana iniziate dal 1683 con la canzone per il barone D’Aste[41] risentono della vicinanza stimolatrice della singolare «basilissa» (non piú di questo si può affermare sulle relazioni fra Guidi e Maria Cristina[42]), che nel suo Instituto dell’Accademia aveva fra l’altro ordinato «non voglio che si canti piú»[43] e, pur ammiratrice del Filicaia, vagheggiava una poesia di grandiosità piú energica e «pindarica» (Pindaro è la tentazione degli arcadi, il prestanome delle loro velleità di lirica eroica) a cui il Guidi appariva il piú naturalmente portato.

E nacquero cosí le canzoni dedicate a Cristina o ispirate dalla sua morte (tra cui notevole è quella al Panciatichi Per l’urna di Maria Cristina), che presentano in un organismo metrico ancora regolare e tradizionale, ma diversamente complesso da quello piú secco e semplice della canzone per il barone D’Aste, svolgimenti di temi eroici e solenni in un discorso ampio e stimolato da un frequente erompere di immagini piú risentite, da movimenti propulsivi in cui si traduce piú direttamente un fondo di eccitazione e di aspirazione alla grande poesia: e il Guidi è veramente la figura concreta di questo vano desiderio di grande poesia, di un nuovo Pindaro, che distingue la prima fase della vita arcadica, cosí ricca e varia, da quella piú consapevole del periodo settecentesco in cui la scelta di una poesia melodrammatica è avvenuta in coerenza con il vero spirito dell’epoca. Perché il Guidi, se venne acquistando sempre maggior padronanza dei propri mezzi espressivi a limitare sempre piú (ma mai compiutamente) la tendenza dispersiva della sua immaginazione, che diviene facilmente divagata e farraginosa negli svolgimenti troppo lunghi a cui pure i suoi impeti inevitabilmente lo portano, rimase sostanzialmente chiuso nella sua naturale disposizione di scatto e di tensione frammentaria, di iniziale piglio poetico che si sfa in eloquenza fiacca e poco articolata, di abbraccio che non stringe e non feconda.

Sicché, se pure, come ripeto, il passaggio dalle Rime di Parma alle nuove poesie romane del periodo cristiniano e poi da queste a quelle ispirate dalle cerimonie arcadiche (e naturalmente soprattutto il primo passaggio) corrispondono ad una progressiva chiarificazione della poesia guidiana e ad un progressivo miglioramento delle sue possibilità costruttive, l’atteggiamento fondamentale del Guidi mantiene una sua chiara continuità: e cosí permane il suo essenziale modo di esprimersi in uno schema fra sentenza ed esempio con un discorso poetico piú eccitato che spiegato sotto l’apparenza di una costruzione sempre piú ampia e dominata, con uno scatto di immagine che spesso sembra un avvio di accensione che non si comunica poi a tutto l’organismo poetico. Il Guidi non riuscí mai a superare del tutto (malgrado una maggiore chiarezza e articolazione di discorso) la sua incapacità di vera costruzione, come non poté mai dare piú che suggestioni piú o meno vaste, piú o meno generiche, lampi di immagini, scatti di fantasia che si complicano con ripetizioni e svolgimenti cerebrali e retorici.

Il suo impeto bellicoso e commemorativo, legato alla velleità, sua e del suo tempo «barocchetto», di vaticinio pindarico, del poeta che passeggia sulle nubi e parla a tu per tu con le muse e con l’eternità (con tutto il ridicolo che ne consegue nella sproporzione effettiva tra mète cosí ambiziose e una realtà cosí diversa[44]) si risolve, con maggiore o minore estensione e durata, in momenti piú suggestivi (anche se sempre equivoci nella loro natura fra poetica e retorica), in gesti risoluti e densi, in inizi di membrature muscolose e solenni che non si svolgono, come in un abbozzo irrealizzato e abborracciato con materiali piú scadenti e con elementi inferiori, discorsivi (piú stucco che marmo!).

Forse il piccolo poeta vagheggiò qualcosa di simile alla grandezza eroica di palazzo Farnese (dove egli abitò a lungo dopo la morte della regina Maria Cristina)[45], ma proprio il confronto fra quel capolavoro e le sue canzoni ci fa piú acutamente sentire il fallimento delle sue velleità, la sproporzione non solo di forza, ma anche di gusto nel suo tentativo e nella sua illusione tenace di una nuova poesia classica in cui solo l’ammirazione e l’aggiunta infatuata dei contemporanei potrono sentire un singolare incontro (era il loro desiderio su questa via secondaria del gusto arcadico nella sua fase barocchetta) di «sublime e chiaro»[46], di «mirabile e verisimile» da porsi accanto, nella sua posizione di eccezione, alla lirica alta piú ordinata e continua del buon Filicaia. Il suo fondo eccitato e poco limpido, in cui immaginazione e raziocinio si complicano (per quanto in maniera sostanzialmente diversa da quanto avviene nel vero barocco), si traduce, come dicevo, in impeti, in pigli, in inizii e in rilievi di immagini che dalle poesie del periodo cristiniano a quelle del periodo delle cerimonie arcadiche guadagnano in capacità di durata e di suggestione piú vasta, intorno ai motivi guidiani di celebrazione di eroismo, e soprattutto di tombe illustri, di rovine gloriose, di contrapposizione grandiosa fra civiltà e barbarie, fra pace arcadica (sentita però soprattutto in forme grandiose e retoriche di nuova civiltà potentemente pacifica) e le guerre turbatrici dell’epoca.

E si potrebbe fare una raccolta di versi e di sequenze di versi guidiani (già nelle Rime parmensi) capaci di suscitare suggestione di clima eroico e bellicoso, di tensione assorta e solenne e quasi una promessa poi non mantenuta – di una intera poesia omogenea. Impressioni rapide ed echeggianti di vasti spettacoli solenni[47]:

Tutta vestita a bruno

portò la vinta Olanda il ciglio afflitto...

Oh se l’ombra di Ciro

lungo l’Eufrate oggi movesse il piede!

fuor dell’antica sede

Babilonia vedria pianger sul lito:

vedria le regge dell’impero assiro

per ermi campi inonorate e sparte

e d’ampie mura di splendore ed arte

oggi l’arabe insidie orrido albergo...

Verran sul Tebro gli Etiopi e gl’Indi

e di barbare bende avvolti i crini

i re dell’Asia alla bell’urna innanzi...

Deporran l’aste e i sanguinosi acciari

a piè della grand’urna i re guerrieri...

Ma questa stessa operazione di isolamento di versi e di brevi sequenze di versi, che potrebbe farsi lunghissima e certo generosa di indicazioni quanto mai tendenziose (e gli stessi avvicinamenti a versi pariniani, foscoliani e leopardiani, se possono, in qualche caso, indicare una lettura guidiana di questi autori e una relativa importanza del Guidi nella via di una certa tecnica e di un certo linguaggio classicheggiante, non debbono condurci a risentire i versi guidiani nell’atmosfera dei poeti nominati e ad indugiarvi con una preferenza poco motivata criticamente), denunzia i limiti della fantasia guidiana intimamente frammentaria e viva in momenti isolati che spesso scoloriscono nel loro vero contesto fiacco e retorico. In seno agli stessi versi che qui possono colpirci si noti come soprattutto conti lo scatto iniziale (che appare inizialmente piú profondo di quanto non sia) e il rilievo (che poi scade spesso in abile formula oratoria) di parole caricate di un’energia e di una suggestione che non trovano un vero motivo centrale che le giustifichi poeticamente. E difatti nelle canzoni per Cristina, ad esempio in quella alla sua urna, che cosa si cela effettivamente sotto quell’atmosfera solenne ed eroicamente mesta, che cosa lega fra loro quelle apparizioni suggestive di barbarici re, di sanguinosi acciari? Ancora una volta non piú che un abbozzo di motivo poetico, il tema della grandezza di Cristina e della funzione della sua urna come altare di pace e di nuova civiltà.

E diciamo subito che da questo punto di vista nelle canzoni successive, in cui pure va ritrovato antologicamente il meglio del Guidi, i temi poetici della nuova civiltà arcadica (semplicità pastorale, ripresa della grandezza romana nella potenza del papato) non sono piú precisi e fecondi, se si eccettui quel tema delle rovine e della grandezza passata (che era poi il piú congeniale allo spirito di commemorazione di tombe e di rovine, già notato nelle Rime di Parma) che risalta nelle sue offerte piú vive tra gli altri temi quanto mai retorici a cui il Guidi lo collega nelle sue Canzoni per l’Arcadia.

In queste canzoni il Guidi adottò uno schema metrico (la celebre canzone libera) di cui molto si vantò in relazione al suo nuovo modo di poetare «tutto d’immagine». Nella prefazione dell’edizione del 1704, egli si riconosce[48] «il pregio di essere stato ritrovatore di una maniera nuova di lirico poetare, mentre abbandonando in molti dei suoi componimenti quegli stretti legami, che per lo addietro si sono praticati nelle canzoni, sí nella qualità e nel numero dei versi, come altresí nell’alternar delle rime, non ha egli voluto fermarsi se non dove lo ha guidato il proprio ingegno e l’idea dello scrivere, conducendo però le cose sue con un ordine tale, che ben pare che ne risulti di quando in quando quella grave armonia che è l’anima della lirica, facendolo con arte sí grata all’udito, che volentieri dimentica i luoghi ne’ quali avrebbe dovuto aspettare nuovo posamento di rima, mentre intanto alla fantasia resta libero il campo di spaziare senza pregiudizio dell’orecchio, che bastevolmente soddisfatto rimane dal sentire ne’ propri siti le armoniose corrispondenze». Molte furono le discussioni su tale forma metrica che il Crescimbeni nettamente condannò[49] accusandone l’opera stimolante «di chi lo consigliava» («non cessava di stargli intorno per farlo sciorre affatto dai legami del metro; anzi ogni dí piú l’incalzava e premeva, fingendogli, che avrebbe avuto maggiore libertà, e piú largo campo d’esprimere con isplendidezza le sue grandi idee; che la novità sempre piace ed ha seguito; e che essendo egli inventor di una nuova maniera poetica, il doveva essere anche di una nuova forma»[50]) e la smania di originalità del Guidi, che alla sollecitazione di tali consiglieri (certo il Gravina, ma si faccia una tara sulle ragioni e sull’effettiva importanza di tale incoraggiamento che il Crescimbeni esagera per dare al suo avversario una colpa di piú) era reso propenso dalle stesse difficoltà trovate, secondo il Crescimbeni, a comporre nelle ardue strettoie della rima e del metro regolare.

La condanna del Crescimbeni, che sottolinea l’esigenza arcadica piú centrale di moderata libertà dentro le misure tradizionali, esagera naturalmente le ragioni meno lodevoli dell’innovazione metrica guidiana, ma tocca anche parzialmente un motivo giusto. Il Guidi, dopo avere fatto un’esperienza di regolarità nella canzone per il barone D’Aste e in forme simili, sentiva il bisogno di una struttura insieme solida e libera, capace di adeguare il suo movimento ad impeti e onde di cui egli accentuava l’irresistibile forza della genialità e in cui noi riconosciamo la sua incapacità a precisarsi e ordinarsi intimamente. Ed infatti anche in questa nuova struttura metrica, astrattamente propizia a un movimento libero e autodisciplinantesi, non si può dire che il Guidi abbia raggiunto quegli effetti di organicità che se ne riprometteva, anche se indubbiamente a quello sforzo di novità in campo metrico corrispose, in quelle ultime canzoni e nei loro momenti piú intensi, una capacità di svolgimento maggiore che nelle produzioni precedenti.

Non certo nella celebre e falsa canzone La fortuna, che deve la sua fama al pretesto da essa rappresentato alla scoperta alfieriana della propria vocazione poetica[51] e che risolve la contrapposizione fra la pace dell’animo (con riferimento alla tematica pastorale) e i capricci della sorte in un insopportabile bric-à-brac di esempi storici carichi di strane tinte esotiche e barbariche (questo gusto di nomi esotici e di fasto barbarico in schemi classicheggianti è una delle caratteristiche della maniera guidiana[52]) fastidiosamente pretenziosi di alti significati e poco fusi con certi toni piú lievi e stilizzati, che hanno il loro risultato migliore, ma isolato, nel finale in cui la fortuna distrugge i modesti beni del pastore:

Indi levossi furiosa a volo,

e chiamati da lei

su la capanna mia vennero i nembi;

venner turbini e tuoni,

e con ciglio sereno

delle grandini irate allora i’ vidi

infra baleni e lampi

divorarsi la speme

de’ miei poveri campi.

Anche qui mancanza di un vero svolgimento perché mancanza di una vera situazione poetica precisa e sicura, al cui posto un tenue schema retorico è sopraffatto dallo scatto inutile di tante immagini alte e vuote.

Le canzoni che si presentano piú interessanti ed offrono, nei loro svolgimenti pesanti e poco conclusivi, brani piú suggestivi e notevoli sono quelle scritte per alcune Cerimonie ufficiali dell’Arcadia romana e soprattutto quella intitolata Gli Arcadi in Roma (1693), a cui si riferisce il Muratori per indicare in quella «nobilissima canzone» le qualità «dell’estro nella fantasia»[53].

Ho già detto che in queste canzoni il motivo delle tombe illustri e della poesia suscitatrice di memorie eroiche ed esortatrice a nuove azioni gloriose si complica con i temi (già affiorati nelle canzoni per Maria Cristina) di una nuova civiltà pacifica e rinnovatrice, che si riallaccia alla grandezza romana antica per opera dell’Arcadia e della potenza papale. Ma fra questi temi, pur cosí significativi, in questa zona di ambiziose velleità, per un senso retorico della missione romana ed arcadica, solo il tema delle rovine e delle memorie dell’antica «maestà latina» ha un suo vigore e un suo accento poetico, mentre gli altri sono piú equivoci, incerti e retorici, anche perché l’animo del Guidi, mentre non sentiva efficacemente il piú tipico motivo pastorale idillico (che affiora con una certa vitalità solo nel finale già citato della Fortuna), ondeggiava fra un sogno piú vago di nuova civiltà pacifica e cristiana («Magnanimo pastore a te fia dato / che sul bel colle regni, / entro il cor dei potenti / spegner l’ire superbe e i feri sdegni»), un generico sdegno per le guerre rovinose di quegli anni e un piú autentico amore per motivi bellicosi[54] che possono invece risuonare attraverso il velo eccitante del passato e della memoria poetica nel tema della grandezza antica, delle rovine ancora minacciose di Roma guerriera e dominatrice. È questo tema, circondato da un’aura grave di malinconia e di rimpianto (vero segno di un lato meno genuino ma pur presente nell’epoca: quello di un sogno di impossibile grandezza, di velleità letteraria di potenza), quello che piú s’impone alla nostra attenzione nelle varie canzoni come Gli Arcadi in Roma, Gli Arcadi sul Colle Palatino, I Costumi degli Arcadi, La promulgazione delle leggi d’Arcadia, Quando si decretò nell’Arcadia di incidere l’Elogio del principe Antonio Farnese.

Specialmente nella prima, anch’essa, come tutte le canzoni guidiane, insostenibile in tutto il suo lungo sviluppo, la suggestione delle rovine romane si addensa in un’atmosfera di nostalgia commemorativa, di funebre meditazione grandiosa, scossa da mosse ed immagini piú tese, ma omogenee al largo gesto di rievocazione grave ed assorta che sostiene la lunga sequenza dei primi cinquanta versi e ne fa quasi una poesia a sé. La sensazione della rovina che accora quanto è piú grandiosa e che d’altra parte conserva l’orgoglio dell’antica grandezza e suscita un insieme di ammirazione, di rimpianto, di rispetto commosso, ha trovato qui un’espressione piú continua e piú precisa e, al di là dei versi efficaci, degli accordi densi e suggestivi di aggettivi e sostantivi (le «bellicose trionfate navi» che piacquero al Foscolo), le immagini si svolgono in veri quadri larghi ed evidenti e soprattutto capaci di un alone suggestivo in cui si risolvono i suoni malinconici e cupi, i gesti lenti e solenni di indubbia efficacia. Il succo piú denso di tanti scatti eroici è qui trasfuso nel ritmo generale, nello sviluppo di immagini, nel risultato efficace di una emozione piú sicura e piú chiara.

Mirate là la formidabil ombra

dell’eccelsa di Tito immensa mole,

quant’aria ancor di sue ruine ingombra!

Quando apparir le sue mirabil mura,

quasi l’età feroci

si sgomentaro di recarle offesa,

e guidaro dai barbari remoti

l’ira e il ferro dei Goti

alla fatale impresa.

Ed or vedete i gloriosi avanzi,

come sdegnosi dell’ingiurie antiche

stan minacciando le stagion nemiche.

E lo stesso ritmo abbondante e vario della «strofa libera» ha qui il suo risultato migliore e la sua giustificazione piú intima nella aderenza ad un movimento intimo che non si potrebbe pensare – nelle condizioni particolari della immaginazione guidiana – nelle forme stringate e rapide adoperate ad esempio nella canzone per il barone D’Aste. Naturalmente di efficacia, di suggestione si può parlare piú che di vera poesia e nel gesto di rievocazione essenziale a questo motivo dello spettacolo grandioso delle rovine è pur potenziale la posa del retore che poi si chiarisce meglio nelle parti successive della stessa canzone.

Ed anche in questi momenti migliori e interessanti, la tendenza guidiana a deviare in forme generiche, poco strette e plastiche dopo un inizio o uno scatto piú denso, si rivela spesso in immagini piú suggestive che precise, come si può vedere nell’immagine finale di questo quadro del tempo che indica la sua opera di distruzione (nella canzone Quando si decretò eccetera):

e se d’intorno miri

il Campidoglio e il Tebro

pietà ti discolora e manca il ciglio;

quando terror t’ingombra

veggendo sotto i polverosi aratri

i cadaveri e l’ombre de’ latini teatri!

Qui pur sedean l’imperiali mura

che il mio poter disperse;

qui i tetti d’oro, che mia man converse

in fredda nebbia oscura!

Nella produzione del Guidi, meritano attenzione anche i sonetti (solo una dozzina in mezzo al fioccare di sonetti di quegli anni), fra i quali quello per Luigi della Cerda si collega al motivo di commemorazione eroica animata da un raro sorriso di simpatia per l’eroe giovinetto, ed altri rispondono ad occasioni particolari di ossequio cortigiano. Ma in un piccolo gruppo di sonetti amorosi, spicca quello riportato nei Vestigi della storia del sonetto italiano[55] dal Foscolo che cosí lo commenta: «Questo sonetto esprime poeticamente una splendida verità, alla quale per altro non può aprire gli occhi, se non chi non ha bisogno piú di vederla. Vero è che l’amore induce a creare idoli e ad adorarli miseramente appunto quegli uomini che piú ardentemente amano la bellezza e la virtú sulla terra: pure sí fatti animi conoscono meno difficilmente l’errore, e si sdegnano d’essersi umiliati davanti alla creatura ch’essi avevano deificata. Però quel versetto di Davide se non fosse divino sarebbe tuttavia sapientissimo: Sdegnatevi e non peccherete»[56]. Dove è evidente l’accentuazione dell’impostazione centrale che poteva piacere al Leopardi di Aspasia e il riconoscimento foscoliano di una particolare forza sentimentale e personale nel Guidi.

E certamente l’accento forte e centrale che batte in questo sonetto accentuando un atteggiamento piú chiaramente mescolato con elementi letterari poco fusi in altri simili sonetti (e anche qui non va perso di vista il sottile riferimento letterario di contrapposizione al celebre sonetto petrarchesco: «in qual parte del cielo, in quale idea»), conferma l’accertamento nel Guidi di un nucleo personale di un certo vigore, che si svia in orgoglio, in prosa, in retorica, ma che è alla radice delle sue espressioni piú intense, del suo bisogno di poesia grande, della sua capacità di emozione in temi non volgari, della singolarità innegabile della sua stessa retorica farraginosa e ambiziosa. Di questo animo non comune, di questa coscienza personale che poi degenera in fatuo esibizionismo, è prova appunto il sonetto che qui rileggiamo:

Non è costei dalla piú bella Idea,

che là su splenda, a noi discesa in terra:

ma tutto il bel, che nel suo volto serra,

sol dal mio forte immaginar si crea.

Io la cinsi di gloria e feci Dea,

e in guiderdon le mie speranze atterra:

lei posi in regno e me rivolge in guerra,

e del mio pianto e di mia morte è rea.

Tal forza acquista un amoroso inganno:

che amar conviemmi, ed odiar dovrei,

come il popolo oppresso odia il tiranno.

Arte infelice è il fabbricarsi i Dei;

io conosco l’errore e soffro il danno,

perché mia colpa è ’l crudo oprar di lei.

Già in altro sonetto aveva detto:

Non fu possanza di beltà, ma frode,

onde donna superba il cor m’avvinse,

ed in questa nimica ormai di lode,

quando il poter di mia ragione estinse.

Ma qui il senso alto e risoluto della inferiorità della donna reale rispetto alla immagine superba che il poeta stesso ha creato col suo «forte immaginar» diventa, specie nella prima quartina (la piú bella e compatta), veramente motivo poetico. La natura risentita e inquieta del piccolo poeta che sentiva cosí altamente di sé (ma non si pensi ad un risentimento di escluso e non si fantastichi troppo sul contrasto tra l’animo nobile e la deformità fisica[57]), e che si fa sentire nel piglio piú intimo ed iniziale di ogni suo momento piú intenso, ha trovato in questo sonetto una situazione propizia a sviluppare la sua forma migliore.

Che è sempre forza di scatto e di piglio fra poetico ed eloquente, come si vede anche in questo sonetto in cui l’accento batte sugli inizii, sugli stacchi, sulle contrapposizioni forti che questa volta hanno una continuità piú sicura e si esprimono con mezzi stilistici davvero coerenti: «il forte immaginar» ha creato una poesia insolitamente compatta e il linguaggio forte (che utilizza esperienze di petrarchismo grave ed aspro con movimenti piú recisi e immediati) non cede, mantiene un vigore coerente allo sforzo sentimentale della dura separazione fra l’animo creatore di bellezza e la donna crudele ed inferiore. E una certa violenza volontaria si mescola al piú genuino impeto dell’animo sdegnato, come non manca una sfumatura di compiacenza letteraria della propria forza, del proprio «forte immaginar». Sicché, in conclusione, al «rarissimo poeta», come lo chiama il Muratori, va riconosciuta una potenziale disposizione poetica, un animo non privo di un singolare scatto e di una tensione piú genuina, ma limitata e incapace di durare al di là di felici mosse, di momenti suggestivi, pronta a risolversi in retorica fastidiosa e disordinata, a scadere da abbozzo di immagini e di mito grandioso a un sentenziare enfatico, da una aura suggestiva ad un accozzo di particolari eloquenti, di immagini scatenate a vuoto.

Caratteristica esperienza in questa fase di iniziale Arcadia «barocchetta», piena di velleità e aspirazioni non ben chiarite, l’opera del Guidi, con i suoi parziali e frammentari risultati e con la sua generale posizione, rappresenta il tentativo di una riconquista della poesia fuori della poetica barocca, su di un piano di grandiosità e di forza fantastica che al Guidi doveva sembrare quanto mai sacrificata nella correttezza esangue di un Filicaia. Il tentativo guidiano rimase presto isolato di fronte al prevalere delle esigenze di ordine, chiarezza e minute proporzioni, di ritmo agile e piacevole, di movimento melodrammatico e di fine analisi sentimentale, come la fase dei tentativi di costruzione grandiosa in genere viene cedendo a quella del miniaturismo nel sonetto melodrammatico e nella canzonetta. Ma mentre un’eco della sua immaginosità bellicosa e grandiosa passerà, in forme stilizzate, non tanto in alcuni poveri sonettisti di «rovine romane», quanto nello stesso Metastasio dei drammi romani, l’opera del Guidi serví di appoggio e pretesto all’avvio della discussione sulla poesia del Gravina, dette lo spunto ad una interpretazione e proposta di poetica arcadica, che, battuta da quella del Crescimbeni, rimane però importantissima nella storia dell’Arcadia e nel pensiero estetico del Settecento, ed efficace sull’opera del Metastasio e del Rolli.


1 Il Ditirambo del Redi è anche un importante documento di storia letteraria e precisa assai bene una specie di carta italiana in cui sono indicati i letterati e i centri della nuova cultura e della nuova letteratura.

2 Come dice il Panciatichi, censore della prima edizione (1674) delle Rime di Benedetto Menzini.

3 Un esempio del legame fra il rinnovamento letterario e quello della cultura in genere si può avere, nel caso del rinnovamento napoletano, attraverso la «conversione» filosofica e letteraria del Caraccio (Vita scritta da D. De Angelis in Vite degli Arcadi illustri, I, 1708, p. 145): «In questa oscura nebbia di errore si vide il Caraccio e stette quasi vicino a sottoporsi al comun giogo, se la chiarezza del suo intelletto e la robustezza della sua mente non fosse stata valevole a farnelo riscuotere; al che gli valsero di buona guida e d’acuto sprone i lodevoli esempi di que’ saggi uomini e letterati che istituirono in Napoli l’Accademia filosofica degli Investiganti».

4 Carlo Maria Maggi (1630-1699) passò tutta la sua vita a Milano (o nella sua villa di Lesmo) e fu professore di lettere greche e latine alle scuote Palatine e segretario del Senato. Su di lui si veda la Vita scritta dal Muratori (in Opere, Milano 1700, o in Vite degli Arcadi illustri, I). Fra i saggi moderni citabili ancora quello pieno di simpatia, ma criticamente debolissimo, di E. De Marchi, C.M. Maggi, Milano 1885, e Milano 1930, e l’articolo di M. Apollonio, C.M. Maggi e il moralismo lombardo, in «Civiltà moderna», 15 febbraio 1932.

5 La situazione del Sud deve essere ancora ricostruita. Accanto al barocco estremo (e diverso quanto a impegno morale) di un Artale e di un Lubrano (su cui si vedano i saggi di F. Croce in «La Rassegna della letteratura italiana», 1961, p. 393 ss., e 1962, p. 224 ss.), si manifestano (a parte la forza delle nuove posizioni critiche ed estetiche del Caloprese e del Gravina) o tentativi di autorizzamento classico degli stilemi barocchi (si veda la lettera di Pietro Casaburi al Caramuele, 4 marzo 1680, in Opere scelte di G.B. Marino e dei marinisti, a cura di G. Getto, Torino 1954, II, pp. 152-163) o riprese di classicismo in funzione antibarocca come quella del Cicinelli (su cui si veda il saggio di G. Malcangi in Volti e figure del passato in Puglia, Roma 1956 e la scheda di F. Croce in «La Rassegna della letteratura italiana», 1956, p. 593).

6 È questo un punto chiaro di incidenza dell’attività gesuitica nel rinnovamento del buon gusto. Non però qui una precisa azione sulla letteratura con lo scopo di ammonire gli animi nell’ozio idillico, ma uno stimolo a fine Seicento (e specie nel nord) a reagire alla «lascivia» barocca, a tentare poesia religiosa e morale. Significativa in tal senso è la dedica delle Rime del Maggi al generale dei gesuiti Tirso Gonzáles: «ma ciò che piú rileva, ad impulso loro, io fui ritratto da que’ suggetti pericolosi, dietro a’ quali miseramente mi andava a perdere, e fui piú tosto fatto a questi altri applicare della gloria di Dio e della virtú, ecc. Essi mi scopersero come in queste materie morali e pie, molto piú nuovo, piú largo, e piú nobil campo si apre a chi sappia scorrerlo» (Dedica delle Rime, Firenze 1688).

7 In L. Medici e G.A. Maggi, C.M. Maggi, poeta meneghino, Milano 1930. Ma adotto la lezione fornitami gentilmente da Dante Isella che sta curando l’edizione del Maggi per la casa editrice Einaudi.

8 La frase è del Croce (Storia della età barocca, Bari 1930, p. 419), che rileva positivamente nel Maggi – in paragone col Filicaia – tale momento di «verità e proprietà».

9 «Una tanta fecondità e un tal polso di pensieri veniva al Maggi dalla felicità del suo ingegno, dalla dirittura e delicatezza del suo giudizio e dalla cognizione delle varie arti e lingue ma piú principalmente dalla filosofia de’ costumi» (Vita cit., p. 83).

10 S. Maffei, Rime e prose, Venezia 1719, p. 27 e ss.

11 Op. cit., p. 34.

12 Della perfetta poesia italiana, Milano 1821, I, pp. 44-45.

13 Si vedano in proposito le osservazioni del Fubini nel saggio sulle osservazioni del Muratori al Petrarca nel vol. Dal Muratori al Baretti cit.

14 Indubbiamente il Maffei si faceva (nel Discorso arcadico e nella Lettera al Garzadoro) intenzionalmente affermatore e portavoce della tendenza prevalente nell’Arcadia romana con i suoi interessi stilistici e retorici (e «lo stile poetico» è punto quanto mai equivoco fra giusta esigenza stilistica e concezione retorica di generi e di forme separate di prosa e poesia), e, proprio nel fondare la colonia veronese, voleva reagire ad ogni possibile adeguazione del buon gusto con un semplice regolamento esteriore del contenuto e con un semplice distacco dalla «lascivia» barocca. Nel Maffei agiva anche un amore della tradizione stilistica italiana, mentre nel Muratori l’esaltazione – pur con riserve che rivelano la sua fedeltà ai canoni stilistici arcadici – del Maggi corrispondeva ad una opposizione ragionata ad ogni eccesso di puro stilismo, di «bellezze esterne» a favore dell’importanza dell’animo, del pensiero nuovo, come essenziali stimolatori di buono stile.

15 Nel Femia sentenziato (del 1724; citiamo dall’ediz. del Viani, Bologna 1869, p. 111) cosí è presente il Maggi di fronte all’ingrato discepolo:

Ei fu pur tuo maestro, ei pur distolse

dai falsi vezzi di cantor lascivi

le caste muse e le rimise in pregio

di vergin nate a celebrar gli Dei,

sposando inni celesti ad aurea cetra.

Ei vecchio pur della sua gloria erede

scrisse te giovinetto in mille carte.

Muore: Apollo ne piange e tu ne ridi,

profano, e le onorate ossa ne insulti?

E nella introduzione del Teatro italiano, dicendo che «sono ormai quindici anni che questo dispiaciuto e disprezzato autore non si legge», accusa il Maffei di aver lui causato questa rovina del Maggi con la sua lettera al Garzadoro per poter lodare se stesso come primo rinnovatore del buon gusto nell’Italia del Nord.

16 Nelle stesse Rime degli Arcadi (V, Roma 1717) le poesie scelte del Maggi (Nido Meneladio) non sono i sonetti e i componimenti per musica da noi citati, ma piuttosto qualche sonetto patriottico (per la vicinanza con il Filicaia), e qualche poesia religiosa piú cantilenante e vicina alle forme del De Lemene.

17 Il conformismo religioso del De Lemene è quanto mai rigido e nella stessa maniera con cui nella dedica designa il papa come «Vicedio» si può costatare una forma di ossequio esteriore davvero sconcertante. Simili forme non si trovano nell’opera piú intima e libera del Maggi.

18 Nato a Lodi nel 1634, dopo i suoi studi di legge a Bologna e Pavia, il De Lemene passò agiatamente tutta la vita nella città natale «amantissimo della quiete» e solo per un periodo non lungo coprí la carica di «oratore» di Lodi a Milano. Morí nel 1704 (Vite degli Arcadi cit., I, p. 190 ss.).

19 Merita il conto di riportare la linea dell’elogio muratoriano, concepito al solito come elogio agiografico di un santo padre del «buon gusto»: «F. De Lemene fu uno di quelli che cominciarono a discacciare dai versi la pompa soverchia delle mendicate false acutezze, la enfiatura dello stile, e le altre affettazioni: e bandirono la viltà degli argomenti, non però cosí che ne escludessero la tenerezza cantando soavemente d’amore...». Ma le esperienze di poesia amorosa in forme meliche misurate e senza «lascivia», che alla fine eran quelle piú adatte a piacere all’Arcadia matura, già posteriori a prime prove marinistiche sconfessate e addirittura bruciate dall’Autore, furono superate dal nuovo tentativo di poesia sacra nella forma «regolare» di sonetti ed inni («letti con ammirazione universale da’ letterati come quelli che oltre l’espressione del mistero contenevano immagini bellissime e maestose, e proprie della lirica poesia...»), su cui si appoggiò l’ultima opera del De Lemene. In cui i «Delegati» ad approvare la vita muratoriana trovano il punto massimo di questa esperienza di rinnovamento che non perde l’acquisto essenziale della melodia: «Dal che prendendo coraggio il Lemene, riprese anche le forme del madrigale, riducendolo al serio, senza distorlo dal concettoso che è il suo proprio carattere e in centocinquanta di questi scrive il Rosario della Vergine, frammezzato da canzonette leggiadrissime...».

20 Si veda in proposito lo studio di C. Calcaterra (ora in Poesia e canto, Bologna 1951) sul Rolli che è da utilizzare con una forte limitazione circa il preciso legame della poetica rolliana rispetto al canto secentesco e alla stessa esperienza lemeniana.

21 L’Arcadia matura saprà bene distinguere nella sua educazione letteraria il suo nuovo gusto del canto dal canto barocco di cui essa si servirà come semplice preparazione dell’«orecchio». Si veda in proposito il passo dei Sermoni della poetica del Martello (in Versi e prose, Bologna, 1792, I, pp. 220-222) in cui si parla dell’educazione del giovane poeta che il maestro «ritrae discreto e destro» dalle letture dei secentisti dopo che in quelle «l’udito» ha acquistato meglio «del verseggiare l’uso».

22 Storia dell’età barocca cit., pp. 221-222.

23 Sul saggio del Ceva (importante anche ad indicare la collaborazione fra poesia e critica in Arcadia e addirittura l’intensificazione dovuta alla critica di motivi spesso pallidi e potenziali nella poesia e la loro accentuazione positiva) si veda R. Ramat, La critica del padre Ceva, Firenze 1947, e M. Fubini, Dal Muratori al Baretti cit., in cui si mette in rilievo il sostanziale antisecentismo del Ceva: grazie contro acutezze, anima contro ingegno (pp. 23, 29, 40).

24 Nell’opera del De Lemene la melodia è dunque sempre presente (meno però nel Dio piú retorico ed espositivo) e costituisce il motivo piú tipico di questo rimatore di barocchetto melico. Notevoli per tale predominio del canto il Narciso, La ninfa e Apollo (favole boscherecce) con ariette che bene indicano il legame e la lontananza insieme fra queste forme «barocchette» e quelle veramente arcadiche e rococò del Metastasio: «Sei pur dolce o libertà / ma di te la gran dolcezza / chi la gode non l’apprezza / la sospira chi non l’ha. / Sei pur dolce o libertà...».

25 Naturalmente il giudizio degli arcadi non può coincidere con quello tuttora in evoluzione della critica contemporanea. Ma in questo studio della formazione della poetica arcadica importa soprattutto calcolare l’immagine che gli arcadi avevano del barocco per capire la loro reazione, la loro coscienza di distacco e di novità.

26 E si può dire che gli arcadi amarono il De Lemene appunto perché riportava nelle sue poesie certe caratteristiche barocche piú amabili senza le accentuazioni piú concettistiche che essi soprattutto ripudiarono.

27 «Ne abbiamo dinanzi agli occhi l’esempio in un arcade nostro, che è il Guidi, il quale una particolare maniera si è venuto formando, che egli chiama di immagine e riesce sí viva e forte che con applauso piú sonoro e con maggior commozione de’ circostanti non so qual poeta fosse udito già mai. E però chi sarà sí felice di produrre alcun nuovo carattere, purché secondo la vera e sana idea della poesia, andrà di mille innanzi agli altri non ché del pari. Vero è che siccome il modello di alcune forme di Dante e del Chiabrera, accoppiate con certi modi delle orientali favelle ha preso i semi di quel suo stile; cosí anche per la novità dee necessariamente precedere un esatto studio degli universali maestri» (Rime e prose cit., p. 35).

28 G.V. Gravina, Prose, Firenze, 1857, p. 310.

29 Nato a Pavia nel 1650, il Guidi passò a 16 anni a Parma dove nel 1671 pubblicò le poesie poi ripudiate. Nel 1683 fece un primo viaggio a Roma, dove nel 1685 (lo stesso anno dell’arrivo del Menzini) fu chiamato da Maria Cristina a far parte della sua corte e dell’Accademia Reale. Dopo la morte della regina, passò un periodo di ristrettezze economiche, superato con nuove protezioni di potenti. Tranne un breve periodo passato nel 1710 a Pavia, rimase sempre a Roma fino alla morte avvenuta nel 1712. Per i dati della sua vita ugualmente utili le due Vite del Guidi, a cura del Crescimbeni e del Martello.

30 Poesie liriche di Alessandro Guidi, Parma 1671. La data è ripetuta anche nella dedica (1 agosto 1671) e nell’imprimatur (6 luglio dello stesso anno) e non si capisce quindi come tutti gli studiosi (a cominciare dal Crescimbeni) abbiano sempre dato il 1681 come anno di pubblicazione (si aggiunga che nella approbatio dell’inquisitore si dice «quod certe mirum ut a vix ex ephaebis egresso senilia et seria adeo sint egressa»).

31 Si veda in proposito F. Ulivi, Prima dell’Arcadia, in «Paragone», 28, 1952.

32 «Il genio del nostro Alessandro voleva urtare contro questa corruttela ma come poteva riuscire ecc... Suo malgrado adunque cominciò a tormentare il proprio ingegno, a lasciarsi trascinare a seconda con tanto strazio di sua inclinazione che soggiacque ad una infermità perigliosa» (p. 231). Spesso «voleva recitare lui versi del Petrarca, del Chiabrera, del Tasso e vedeva incresparsi quelle fronti e tutte quelle mani rimaner mute agli applausi» pronti per il marinista Semproni. Da ciò, secondo il Martello, derivò il carattere delle Rime di Parma, libro «debole» «né marinesco né petrarchevole».

33 Pur del caso perverso

i moti insani e le vicende infide

il magnanimo cor seco deride.

34 Rime, ed. cit., p. 181.

35 Rime, ed. cit., p. 64.

36 Rime, ed. cit., p. 112.

37 Rime, ed. cit., p. 44.

38 Il Crescimbeni nota però che in quel volume, «tra la lordura della maniera del secolo, risplendé qualche lampo di quelle bellissime gemme che sotto altro cielo e in altro tempo produsse poi il suo pellegrino ingegno» (Vita, ed. cit., p. IX).

39 Donde la simpatia poco avveduta del Gravina che su quel povero testo scrisse il suo intelligente e vivacissimo Discorso. Quanto poté influire il Gravina sul Guidi? Certo le sue idee sulla missione civilizzatrice della poesia, sull’opposizione di miti e ragionamenti, dovettero incoraggiare il Guidi alla sua poesia celebrativa. Ma la natura di retore bisognoso di pubblico e risonanza ufficiale si rivela nei rapporti Gravina-Guidi quando allo scisma arcadico il Guidi rimase nell’Arcadia piú adatta con le sue cerimonie a soddisfare la sua brama di applausi. Si può pensare che letture di classici e qualche influenza del Maggi non siano mancate nel periodo parmense e che poi il contatto diretto con gli uomini del rinnovamento a Roma abbia dato un deciso contributo alla nuova poetica seguita dal Guidi: e, si noti, sempre in posizione piuttosto isolata e con un evidente limite di cultura, anche se non mancarono certo al Guidi i suoi bravi testi (specie Petrarca e i petrarchisti) a sostenerlo nel suo esercizio letterario.

40 Le poesie dell’epoca romana fra Accademia Reale e Arcadia furono edite a Roma dal Komarek nel 1704 e riprodotte poi insieme alle Omelie, all’Endimione, alla Dafne e all’Accademia per musica nell’edizione di Verona, 1726.

41 Se la datazione della nuova maniera poetica guidiana è precisa, piú difficile è stabilire la storia della sua «conversione», che ha almeno due versioni differenti: quella del Martello che mostra il Guidi già lettore dei classici e dei «buoni testi» nel periodo parmense quando era barocco «per forza e di contraggenio», e quella del Crescimbeni che nella sua Vita riporta la conversione al primo soggiorno romano (1683) e parla di «vari letterati» che «deplorando l’infelicità del secolo e conoscendo che il suo ingegno per la docilità che mostrava, e per quei lampi, che si vedeano sparsi nelle sue Rime era in istato di facilmente entrar nella strada del vero pindarico al quale egli dal genio e dall’attività della fantasia, piú che ad altro stile era portato, gli insinuarono il modo di conoscere la bellezza di Pindaro e del suo grande ed ammirabile imitatore Chiabrera. Ebbe oltre a ciò notizia di Dante e di Petrarca, nomi allora per lo piú ignoti a’ poeti e seppe che questi due erano i principi della nostra poesia, senza la guida de’ quali niuno stile poetico in lingua italiana può giungere alla perfezione» (Vita, ed. cit., p. XII).

42 La storia dell’Accademia reale di Maria Cristina e della stessa attività letteraria della regina in esilio andrebbe nuovamente fatta con nuovo spirito storico. Sulle relazioni fra il Guidi e Maria Cristina come collaboratrice e ispiratrice non solo dell’Endimione, ma d’altre poesie, fantasticò poco criticamente T.L. Rizzo nel suo saggio su A. Guidi, Lecce, 1927 (poi in Dal Sei all’Ottocento, Torino, 1931): saggio tendenzioso e sfasato in cui una valutazione sproporzionatamente positiva della poesia del Guidi si appoggia anche su di un rilievo esagerato di certa aura foscoliana, e peggio leopardiana, presentita in alcuni versi del Guidi e utilizzata per costruire una figura di precursore del neoclassicismo. Per le suggestioni che la poesia guidiana poté esercitare sul Parini si vedano G. Natali, Guidi e Parini («Fanfulla della domenica», 23 marzo 1913), G. Corsi, A. Guidi e Parini (Annali del Liceo di Teramo, 1934) e, per la metrica guidiana il saggio di A. Crespi, A. Guidi e la canzone libera leopardiana («Rivista d’Italia», settembre 1913).

43 Tuttavia il bando dato da Cristina al canto come «lascivo piacere degli orecchi» non tolse che anche nell’Accademia reale si ricercassero nuove forme di accordo tra melodie e poesia «seria» e persino piú intenso e con predominio della poesia puramente librettistica; che sarà poi l’intenzione stessa del Metastasio. E il Guidi rappresentò, per eccesso, questo nuovo bisogno di un testo poetico non subordinato alla musica, e la sua Accademia per musica (1687) era cosí poco librettistica e facile che «diede a che fare a chi ornolla di musica perché in essa non trovò quella facilità di locuzione e quel correr di versetti che i professori di musica per la loro poca cognizione dai troppo creduli verseggiatori unicamente richieggono, avvilendo cosí una delle piú belle e dilettevoli spezie che abbia la nostra poesia ritrovato» (Vita del Crescimbeni, op. cit., pp. XIII-XIV). Poi il Metastasio troverà un modo piú sicuro ed agevole d’accordo fra poesia e musica, imponendo l’organicità del dramma, ma offrendo una diversa possibilità di musicazione del suo testo con la natura chiara e semplice, intesa ed evidente del suo linguaggio.

44 Il Martello nei suoi Sermoni dell’arte poetica traccia questa immagine della poesia del Guidi e nelle sue parole di ammirazione noi possiamo viceversa costruire un’immagine ironica di tanta ingenua superbia. Ma ricordiamo quanto spesso i critici travedono nei loro contemporanei ciò che essi desiderano dalla poesia del proprio tempo; e particolarmente in epoche letterarie in cui sulle rovine di una poetica se ne viene formando, faticosamente, con incertezze ed equivoci, una nuova:

Ma il Guidi ognor sull’apollinea soglia

cento alati cavalli al freno ha pronti

per farli alti levar dovunque ei voglia.

Ei pur degli incredibili ne’ fonti

bee l’immagini elette, a cui vuol fede

quasi uom che il vero ed infallibil conti.

E s’a lui credi, ei di se stesso il crede,

parla e sente di sé qual d’un che i cieli

scelsero a por di là di morte il piede,

a squarciar dell’obblio sui nomi i veli,

a star del mondo a ragionar coi fati,

de’ qual gli ordini eterni ei sol riveli.

Rapito il miri in su le vie de’ vati

trattar le nubi, e dietro a sé la traccia

per grand’aria lasciar di lampi aurati,

e parlar con le Muse a faccia a faccia,

e gir securo infra gli Dei fin dove

mormora il tuono, il fulmine minaccia,

e con la lingua, che imparò da Giove,

cantar di Roma ai maestosi avanzi

de’ figli antichi suoi l’eroiche prove.

Sogni d’infermi e fole di romanzi,

e pur, mercé de’ carmi suoi, le accolgo

sacre come a me sacro il ver fu dianzi.

45 E nelle sale del palazzo, come raccontano i biografi, il Guidi si aggirava alla notte declamando i suoi versi, eccitando la sua immaginazione.

46 Nei versi citati del Martello ricorre anche questo elogio particolarmente arcadico: «fiso a’ nuovi suoi canti, a me mi tolgo; / né so, come sublime e chiaro uom possa / parlar da nume e che l’intenda il volgo». In realtà questa mèta ambiziosa non era adatta alla poesia arcadica, che raggiunse i suoi risultati migliori nell’incontro di chiarezza e di canto melodrammatico, di evidenza gustosa e di animazione patetica in proporzioni tutt’altro che sublimi.

47 Nel linguaggio immaginoso del Guidi e nel suo tipico accordo (con rilievo di inversioni classicheggianti) di aggettivi e sostantivi è fortissima l’efficacia di certe accentuazioni del Della Casa: cosí «le bellezze incenerite e sparte» (del sonetto La bella argiva) che ritorna tante volte in varie modificazioni nelle poesie guidiane. Il Guidi aveva dunque presenti Petrarca e i petrarchisti della maniera «grave».

48 Sull’orgoglio del Guidi insisterono molto i contemporanei, ma si ricordi che l’immagine del poeta pindarico orgoglioso e sdegnoso era tradizionale e in qualche modo lo stesso Guidi se ne investí al di là del suo stesso carattere e gli stessi contemporanei amarono calcare le tinte e veder verificato in lui la loro immagine anche biografica del «vero pindarico».

49 E gli «esaminatori» ufficiali della Vita del Guidi scritta dal Martello se la cavarono riferendo che il Guidi a chi lo accusava di avere sfuggito «le gran difficoltà delle rime regolate» e di averle collocate «a suo capriccio» rispondeva «che quando abbiamo una bella armonia non va cercato s’ella è regolare o arbitraria» (p. 245).

50 Vita, ed. cit., p. XXI.

51 V. Vita, epoca III, cap. XII. La Ode «grandiosa» (ma si noti, «alcune stanze e specialmente la bellissima di Pompeo») trasportava l’Alfieri «a un segno indicibile» di entusiasmo e furore poetico. Ci si può spiegare come certi impeti innegabili, certo colore acceso di immagini eloquenti potessero – indipendentemente dalla loro mancanza di vera organicità e di vera motivazione poetica – colpire e commuovere l’animo ardente dell’inesperto ascoltatore. Particolari echi guidiani si possono isolare nella giovanile Cleopatra. E già per il Metastasio la piú forte presenza del Guidi è nel Giustino.

52 «Me de’ barbari regi / paventan l’aspre madri / e stanno in mezzo a l’aste / per me in timidi affanni / i purpurei tiranni... Questa è la man che fulminò sul Gange / i regni agli Indi e su l’Oronte avvolse / le regie bende dell’Assiria ai crini; / pose le gemme a Babilonia in fronte / recò sul Tigri le corone al Perso / espose al piè di Macedonia i troni...».

53 Della perfetta poesia, Venezia 1730, I, p. 299-302. Il Carducci, cosí vigile antologista di componimenti settecenteschi, la riportò insieme a quella del 1696 Nel pubblicare le leggi dell’Accademia degli Arcadi e al sonetto Non è costei nella sua antologia Primavera e fiore della lirica italiana, Firenze 1911.

54 Nelle Rime di Parma una canzone porta il titolo significativo Esser necessaria la guerra per. trattenimento di spiriti grandi.

55 Opere, ed. naz., VIII, pp. 141-142.

56 Si veda ora per questo sonetto e per il giudizio generale sul Guidi M. Fubini, nella introduzione ai Lirici del Settecento, Milano-Napoli 1959.

57 Il Guidi, gobbo, deforme e senza un occhio, vien però presentato dai biografi come gratissimo alle donne per il suo spirito e per l’incanto della sua declamazione e, a quanto pare, non senz’altro escluso da grazie amorose.